I RACCONTI
Da leggere e… da ascoltare
Ammore amaro
(Napoli da ora in poi)
Per il progetto culturale di Gabriella Rinaldi “Napoli da ora in poi” e l’omonima compilation ho composto e cantato il brano “Mare amaro” che potete ascoltare sul player e acquistare su varie piattaforme, iTunes compresa; ho adottato come monumento il Cristo Velato, e ho avuto il privilegio di fare un emozionante servizio fotografico a Capella SanSevero; come sapore ho scelto il Lacryma Christi, vino vesuviano. Per spiegare il fil rouge che lega questi tre elementi, ho scritto un racconto, “Ammore amaro“, che potete ascoltare in video.
ASCOLTA IL RACCONTO BREVE
ASCOLTA IL BRANO che ho COMPOSTO e INTERPRETATO
Il suono del tempo
(Historica edizioni e Racconto di Agosto su VOI mese 2020)
Tac tac tac…
Andrea si girò verso quel suono così monotono, sempre uguale.
L’orologio a muro di casa di sua madre, lo stesso di sempre.
Lo fissava come se non lo avesse mai visto. Perso nel bianco del quadrante, incredulo osservava le lancette girare e girare scandendo i secondi in un moto perpetuo, come se nulla fosse, indifferente a tutto e a tutti.
Faticò non poco a staccare lo sguardo, impigliato in quel vortice, come una mosca nella tela di un ragno. Intrappolato in un concetto che gli si spalancava dinanzi come la bocca di un pozzo senza fondo. Il tempo.
Di là suo padre che russava. E moriva.
“È entrato in coma.” Queste le parole che aveva usato il medico il giorno prima.
Era passato dai suoi solo con l’intenzione di fare un salutino veloce e informarsi sullo stato di salute del padre.
E invece. Era rimasto lì vicino a quel letto a vegliare su di lui, guardandolo russare, prigioniero di un sonno profondo.
Non si risveglierà mai più. Non gli potrò parlare mai più. Mai più. Come le lancette dell’orologio, la frase continuava a girargli nella mente, senza trovare una collocazione precisa. Cercava disperatamente di afferrarne il senso, ma temeva di essere risucchiato da quel buco nero. Restava immobile, ostinatamente aggrappato ai bordi di quel vuoto col terrore di mollare la presa.
Da quanto tempo era lì? Da ieri? Si era ieri, solo ieri.
In quella casa, immersa in un’atmosfera ovattata, il tempo sembrava essersi slabbrato.
Si voltò a guardare sua madre, mentre per la centesima volta faceva la spola tra il soggiorno e la camera da letto.
“Sembra tranquillo.” Queste le sue parole, ostinate, come a ribadire la sua convinzione che si sarebbe svegliato. L’altra ipotesi non era accettabile, non la teneva in considerazione. Lei sperava, aldilà di ogni ragionevolezza.
Andrea la sentiva lì, accanto a lui, aggrappata al ciglio del baratro nel quale stavano per scivolare tutti loro, la sua famiglia.
“Mamma siediti un po’.”
Lei lo guardò senza capirlo. Nel giro di due mesi sembrava invecchiata di vent’anni. Da quando aveva ascoltato le parole: cancro, metastasi.
La prese dolcemente per le spalle e l’aiutò a sedersi sul divano:
“Stai un po’ qui. Vado io da lui.”
Ritornò in quella stanza impregnata dell’odore di medicina e di malattia. Un tanfo così forte da essersi conficcato nel cervello, in un punto, da cui, lo sapeva, non sarebbe uscito mai più. Sarebbe ritornato a ondate nella sua vita futura. Magari mentre meno ci pensava qualcosa lo avrebbe rievocato per farlo uscire allo scoperto, come un animale rintanato in un angolo segreto del suo naso sarebbe sbucato all’improvviso, a mordergli le carne come solo i brutti ricordi sanno fare. Sarebbe andata così, lo intuiva, ne era certo.
Guardò suo padre adagiato su un fianco. Lo avevano girato loro quella mattina, lui non era più in grado di farlo autonomamente.
Oramai faceva fatica a respirare.
Ma… da quando il russare era diventato un rantolo? Eccolo lì con la bocca spalancata, che succhiava l’aria avidamente, come se non ce ne fosse stata abbastanza, non per lui, non più. Le spalle che si sollevavano ad ogni respiro. Quanta fatica per una cosa così elementare!
Aggirò il letto matrimoniale e gli si sedette di fronte. Gli accarezzò il viso emaciato, gli scostò i capelli sudati dalla fronte.
“Dove sei? Cosa stai facendo? Ci vedi o sei già lontano? Magari ti stai incazzando perché ti accarezzo. Tu non sei mai stato un tipo da carezze, eppure quanto avrei voluto che lo fossi, papà.
Tu eri un duro… oddio ho detto eri? Sei…sei un duro. Tu odi ogni forma di debolezza. È per questo che non ci siamo mai capiti, vero papà? Tu mi hai sempre visto come un debole. E forse un po’ lo sono. O forse sono io quello forte? Io che non temo il confronto, io che non credo che la prepotenza e la violenza siano una soluzione?
Non mi rispondi papà? Adesso non puoi e prima non volevi.
Te ne andrai così, senza essere mai riusciti a parlarci serenamente come dovrebbero fare tutti i padri con i propri figli.
Te ne andrai senza sapere chi sono veramente e senza farmi capire tu chi sei. Chi sei papà? È una vita che me lo domando. E adesso chi mi risponderà?”
All’improvviso come una deflagrazione lo sentì.
Sentì il suono del tempo quando si ferma. Sentì l’orrore del silenzio attorno a sé. L’assordante assenza del respiro.
Suo padre era andato via, definitivamente.
Nessun futuro per lui, nessun domani.
Non ci sarebbero state spiegazioni né perdoni; nessuna soluzione, nessuna assoluzione. Non più tramonti, né giorni semplici fatti di piccoli gesti quotidiani. Niente cose da fare e da aggiustare, né nipoti da veder crescere, più nessuno con cui litigare, niente di niente, mai-più… mai-più… mai-più.
Il suono del tempo
(Historica edizioni)
Tac tac tac…
Andrea si girò verso quel suono così monotono, sempre uguale.
L’orologio a muro di casa di sua madre, lo stesso di sempre.
Lo fissava come se non lo avesse mai visto. Perso nel bianco del quadrante, incredulo osservava le lancette girare e girare scandendo i secondi in un moto perpetuo, come se nulla fosse, indifferente a tutto e a tutti.
Faticò non poco a staccare lo sguardo, impigliato in quel vortice, come una mosca nella tela di un ragno. Intrappolato in un concetto che gli si spalancava dinanzi come la bocca di un pozzo senza fondo. Il tempo.
Di là suo padre che russava. E moriva.
“È entrato in coma.” Queste le parole che aveva usato il medico il giorno prima.
Era passato dai suoi solo con l’intenzione di fare un salutino veloce e informarsi sullo stato di salute del padre.
E invece. Era rimasto lì vicino a quel letto a vegliare su di lui, guardandolo russare, prigioniero di un sonno profondo.
Non si risveglierà mai più. Non gli potrò parlare mai più. Mai più. Come le lancette dell’orologio, la frase continuava a girargli nella mente, senza trovare una collocazione precisa. Cercava disperatamente di afferrarne il senso, ma temeva di essere risucchiato da quel buco nero. Restava immobile, ostinatamente aggrappato ai bordi di quel vuoto col terrore di mollare la presa.
Da quanto tempo era lì? Da ieri? Si era ieri, solo ieri.
In quella casa, immersa in un’atmosfera ovattata, il tempo sembrava essersi slabbrato.
Si voltò a guardare sua madre, mentre per la centesima volta faceva la spola tra il soggiorno e la camera da letto.
“Sembra tranquillo.” Queste le sue parole, ostinate, come a ribadire la sua convinzione che si sarebbe svegliato. L’altra ipotesi non era accettabile, non la teneva in considerazione. Lei sperava, aldilà di ogni ragionevolezza.
Andrea la sentiva lì, accanto a lui, aggrappata al ciglio del baratro nel quale stavano per scivolare tutti loro, la sua famiglia.
“Mamma siediti un po’.”
Lei lo guardò senza capirlo. Nel giro di due mesi sembrava invecchiata di vent’anni. Da quando aveva ascoltato le parole: cancro, metastasi.
La prese dolcemente per le spalle e l’aiutò a sedersi sul divano:
“Stai un po’ qui. Vado io da lui.”
Ritornò in quella stanza impregnata dell’odore di medicina e di malattia. Un tanfo così forte da essersi conficcato nel cervello, in un punto, da cui, lo sapeva, non sarebbe uscito mai più. Sarebbe ritornato a ondate nella sua vita futura. Magari mentre meno ci pensava qualcosa lo avrebbe rievocato per farlo uscire allo scoperto, come un animale rintanato in un angolo segreto del suo naso sarebbe sbucato all’improvviso, a mordergli le carne come solo i brutti ricordi sanno fare. Sarebbe andata così, lo intuiva, ne era certo.
Guardò suo padre adagiato su un fianco. Lo avevano girato loro quella mattina, lui non era più in grado di farlo autonomamente.
Oramai faceva fatica a respirare.
Ma… da quando il russare era diventato un rantolo? Eccolo lì con la bocca spalancata, che succhiava l’aria avidamente, come se non ce ne fosse stata abbastanza, non per lui, non più. Le spalle che si sollevavano ad ogni respiro. Quanta fatica per una cosa così elementare!
Aggirò il letto matrimoniale e gli si sedette di fronte. Gli accarezzò il viso emaciato, gli scostò i capelli sudati dalla fronte.
“Dove sei? Cosa stai facendo? Ci vedi o sei già lontano? Magari ti stai incazzando perché ti accarezzo. Tu non sei mai stato un tipo da carezze, eppure quanto avrei voluto che lo fossi, papà.
Tu eri un duro… oddio ho detto eri? Sei…sei un duro. Tu odi ogni forma di debolezza. È per questo che non ci siamo mai capiti, vero papà? Tu mi hai sempre visto come un debole. E forse un po’ lo sono. O forse sono io quello forte? Io che non temo il confronto, io che non credo che la prepotenza e la violenza siano una soluzione?
Non mi rispondi papà? Adesso non puoi e prima non volevi.
Te ne andrai così, senza essere mai riusciti a parlarci serenamente come dovrebbero fare tutti i padri con i propri figli.
Te ne andrai senza sapere chi sono veramente e senza farmi capire tu chi sei. Chi sei papà? È una vita che me lo domando. E adesso chi mi risponderà?”
All’improvviso come una deflagrazione lo sentì.
Sentì il suono del tempo quando si ferma. Sentì l’orrore del silenzio attorno a sé. L’assordante assenza del respiro.
Suo padre era andato via, definitivamente.
Nessun futuro per lui, nessun domani.
Non ci sarebbero state spiegazioni né perdoni; nessuna soluzione, nessuna assoluzione. Non più tramonti, né giorni semplici fatti di piccoli gesti quotidiani. Niente cose da fare e da aggiustare, né nipoti da veder crescere, più nessuno con cui litigare, niente di niente, mai-più… mai-più… mai-più.